martedì 31 maggio 2011

altrochè rivoluzione












Abbiamo vinto.
Perso.

Forse pareggiato.
Comunque partecipato.
Abbiamo svoltato.

Smentito pronostici.
Confermato tendenze.
Sofferto.

Determinato.
Il futuro è finalmente cominciato.

La rivoluzione è sempre colorata.

Chissà perchè.
Ovunque emerga, ovunque scoppi.
Indossa una maglia, come nel calcio.
La viola, la verde e l'azzurra. A Milano l'arancione.
La politica è cromatica.
La scelta è di stile.
Belli contro brutti.
Buoni o cattivi.
Noi contro di loro.

Ci spaventano gli estremi.
Troppo marcati.
O l'astensione ragionata.
Troppo trasparente.
Preferiamo un equilibrio di facciata.
Un trucco da due lire.
Una sfumatura comoda.
Sventolare bandiere.


Abbiamo vinto.
Perso.
Forse pareggiato.
La partita è ormai finita.

Abbandonare lo stadio.

sabato 28 maggio 2011

strani umani









Strani gli umani.
Si travestono da eroi.
Da sopravvissuti.
Ti raccontano battaglie,
vinte o perse, poco importa.
Le combattono ogni giorno.
Sanno bene cosa dicono.
Si prodigano in consigli, specialmente i più “adulti”.
Soprattutto gli "amici".
Sciorinano consigli di vita.
Raccomandazioni.
Sembra che conoscano benissimo gli ostacoli.
Affezionati, quasi, agli insuccessi.

Strani gli umani.
Sembrano persi.
Nelle amnesie.
Nelle ricorrenze.
Nelle fedeltà agli ideali.
Nelle scelte, soprattutto. In quelle errate.
Si giustificano, ecco.
Hanno una giustificazione per tutto.
Un'opinione.
Non uno che dica boh.
Non lo so.
Perché no?

Strani gli umani.
Sembrano imparare dagli errori.
E non permettersi di farne.

venerdì 27 maggio 2011

d'esser








 
Perché parlare, in fondo.
(Comunicare, intendo).
Perché provarci.
Sfiatando concetti,
stendendo parole, come mercanzie,
esibendo ricami,
prodotti della mente,
riflessi,
sbraitando talvolta,
sussurrando talaltra.
Cercando sempre nuovi nomi, nuovi suoni.
Nuove forme.

Non è certo una questione d'onore.
Non significa l'ardore.
La ragione è la paura.
D'esser, prima che di fare.
Di diventare forse.
Continuando a improvvisare.

Soffoco,
per le troppe arie attorno.
Voci di sirene.
Compresse, come medicine.
Mi dimentico chi siamo.
Quanti e quali.
(Tutti, in fondo).
Perdo di vista il segnale.
Quel punto brillante alla fine.
L'uscita e il ritorno.
La direzione.
Per questo urlo.
Spavento.
Mi agito.
Svolazzo inconcludente, incappando in pareti di parole.
Scambiando un vetro col suo esterno.
Sono rose profumate che m'impigliano.

Ho paura.
Di questo parlo.
Dell'enorme bestia alle tue spalle.
Inventando la parola “tigre”.
Richiamando l'attenzione.
Non importa quanto conta.
E' soltanto una reazione.
Se potessi controllarla
sarei altrove.

giovedì 26 maggio 2011

catena-chiave












Sono giorni in cui osservo le cose.
Che capitano alle persone.
Tengo gli occhi spalancati.
La mente serena.
L'attenzione massima.
Vivo all'erta, ma senza un senso di pericolo.
Nemmeno un'urgenza.
Leggo, guardo, ascolto.
Le cose capitare.
Le cose accadere.
Il mondo procede a balzi.
Le frequenze sono accelerate.
I mutamenti quotidiani.
Per i singoli come per le masse.
Gli scenari assai variabili.
I futuri? Imprevedibili.
Quel che è certo è che qualcosa accadrà.
Non ci si puo' sbagliare.
Lo dicono le cose.

Sono giorni in cui osservo attentamente.
Lentamente.
Per fotogrammi.
Con lo sguardo più imparziale che conosco.
Senza giudizi.
Nè condizionamenti.
Evitando previsioni.
Tralasciando le ragioni.
Guardo le cose veloci che capitano agli altri.
Che capitano a tutti.
Rifletto il generale sentimento di attesa.
Lo assecondo.
Semplicemente stando.
Osservo le persone che si vestono di cose.
Che succedono, come i fatti.
Che ragionano per logica,
che si esprimono per simboli,
che protendono obiettivi,
che subiscono le colpe.
Persone di pensieri,
come le storie,
dette e fatte.

Ed è lì che comprendo.
Nell'esilarante soggettività del tempo.
Nella disarmante vastità di variabili.
Nella plastica eleganza della mente,
l'insaziabile senziente,
l'utente archiviato,
la catena-chiave.
Colgo finalmente il senso di “abbandono”.
Il significato di “uno”.
Sfioro una timida idea di dio,
al convergere di tutte queste strade.
Un unico inesprimibile soggetto,
che vive di tutte le vite.
Il potenziale illimitato.
Il vuoto pieno.
A cui finalmente ritorno.
Osservandomi osservare.

Smetto di spiegare la risposta.
E la divento.

elegia del non voto












Eccomi qui.
In questi giorni di elezioni.
Ad un passo dai quesiti referendari.
A schivar consigli.
Proclami.
Proiezioni.
Commenti a caldo.
Mi tappo gli occhi per non scorger vincitori, più che perdenti.
Serro le orecchie, per non sentir lamenti.
Grida di giubilo.
Botta e risposta.
Nuove promesse.

Il voto presuppone partecipazione.
Non è una teoria. E' definizione.
Votare è prendere parte.
Esprimere una scelta.
Legittimare.
Non solo un candidato.
Ma un sistema intero.

Io ritengo che il sistema sia corrotto.
Obsoleto.
Fuorviante.
Malizioso.
L'evidenza è imbarazzante.
E disarmante.

Nel mio mondo l'acqua è di tutti.
Della terra, prima che dell'uomo.
Non pagherò mai per la mia sete.
Non ho bisogno di esprimere una scelta.
Perché la scelta l'ho già fatta.
Chiara e condivisa.
La domanda è postuma.

Non necessito rappresentanze.
So badare a me stesso.
Riconosco il giusto e lo sbagliato.
Perché li ho assaggiati entrambi.
Ne mangio in continuazione...
Dovrei votare perché qualcuno, in un altro posto, che non conosco, decida cosa o meno debba fare?

Non è soltanto anarchia.
Questa cosa è logica.

Anche la democrazia è prevaricazione.
Le minoranze, infatti, subiscono.

E non parlatemi di responsabilità.
Di senso civico.
Di civile convivenza.
Di diritti/doveri.
Di convenienza.
Di tradizione.
Della storia.
Di futuro.
Di costituzione.
Di bandiere.
Di carte dei diritti.
Di mancanza di alternative.
Conosco gli argomenti.

Si potrebbe lavorare dall'interno.
Rosicando centimetri.
Aspettando pazienti.
Fiduciosi e illuminati.
Il cambiamento tanto atteso.
Spendendo parole.
Energie.
Moneta sonante.
Lavoro.
Seguendo correnti.
Reclutando adepti.
Proiettando risultati.

Per me è clamorosamente più semplice.
Un sistema corrotto è soltanto un sistema corrotto.
Perché partecipare?

tzunami











Sentirsi dare dello stupido è paradossale.
E' una sberla sulle orecchie, di quelle che stordiscono.
Non che capiti spesso, per fortuna.
Ma succede, talvolta.
Con qualcuno.
Ed è sempre un po' difficile da sopportare.

Talvolta me lo dicono a parole.
Oppure con lo sguardo.
Si piantano un sorriso sicuro sulla faccia e sentenziano.
S'indignano e me lo urlano.
Scrivono e proclamano.
Sembrano assai certi di sapere.
Si fanno capire bene quando vogliono.

Mi danno dello stupido quando esagero.
Quando spolvero scheletri.
Quando elaboro fantasie.
Quando m'impiccio.
Detestano la curiosità imperterrita, il rigor di logica.
La sensibilità spavalda.
Mi rimproverano l'indelicatezza dei modi.
Il fatto che disturbo.
La mia personale passione per i dubbi.
Io, che parlo tanto di verità.

Paradossale è il fatto che talvolta mi ringrazino.
Le stesse persone.
Per le stesse parole.
A seconda dei momenti.
Dipende dagli argomenti.
Dalla scala di valori.
Di norma preferiscono domande comode, tutto qua.
Profili bassi e pedalare.

Paradossale è la coscienza delle persone.
L'uso che se ne fa.
Gabbia o maschera.
Guida o Giuda.
Definirla è davvero troppo.
Ognuno ha quella che si merita.

La mia spesso urla, reclamando attenzione come un neonato.
Mi costringe incessantemente a riflettere, come uno specchio, immagini del mondo in cui vivo.
A riproporre contenuti, come fiotti di vomito. O come carezze.
Mi porta a cercare.
A modificare abitudini.
Rimandandomi al creatore.

La mia coscienza non giudica più.
Nemmeno chi lo fa.
L'ho smussata col cesello.
Allenandola a centrare.
Perché funziona come la mira.

In buona sostanza, concludendo il contenzioso, sarà anche paradossale sentirsi dare dello stupido.
Ma, in tutta onestà e con estrema coscienza, ho smesso di aver ragione.
Ho smesso di provarci.
M'importa soltanto scambiare.
Chi accetta è il benvenuto.
Chi no, no.